Un progetto di drammaturgia montana
Nidi.Fluidi è un progetto di “drammaturgia montana” incentrato sui rapporti fra abitanti e alcuni luoghi dell’arco alpino, contraddistinti da alcune condizioni:
– Essere collegati in modo precario con il fondovalle, a causa di una vera e propria assenza di mezzi pubblici, o di una loro forte limitazione.
– Avere una cultura indipendente rispetto alle zone circostanti.
– Ospitare abitanti che a costo di sacrifici preferiscono restare in una zona “difficile”, a causa della carenza di collegamenti con il mondo circostante.
In questo lavoro mi interessa esplorare i legami affettivi e le scelte estetiche, anche inconsce, che inducono alcune persone a restare in luoghi dove le condizioni di vita sono più difficoltose che altrove, ma dove i disagi possono essere ripagati da altri vantaggi, sia a livello estetico, sia affettivo, sia di benessere psicologico. Radicamento, legame stretto con le proprie origini, con la propria famiglia, contemplazione, isolamento volontario a scopo meditativo, concentrazione sono parole chiave in questo senso.
Nidi fluidi prevede la partecipazione e la collaborazione attiva sia dei residenti, sia dei visitatori dei luoghi scelti, attraverso la risposta ad alcune domande e l’esecuzione di alcune piccole richieste di azioni scritte, o parlate. Il materiale raccolto costituisce il punto di partenza per installazioni e un libro d’artista (in formato cartaceo e/o digitale), incentrati sulla percezione del paesaggio, sul legame con i luoghi, sul rapporto con i personaggi non umani protagonisti di vicende significative connesse al territorio.
Nidi. Fluidi mette in luce la contraddizione fra il concetto di intimità abitativa stanziale e quello di cambiamento, di moto, di flusso. Il nido è il luogo dove ci si può riposare fra un volo e l’altro, rifugiarsi e al contempo si può abbandonare per emigrare, per scelta, necessità, o naturale evoluzione. Può diventare anche una gabbia, tuttavia, un modo per incapsularsi e rinchiudersi in un microcosmo.
Il flusso rimanda a un’onda che si srotola, si scioglie, dopo l’attesa del momento opportuno per spiegare le vele…ha a che fare con la facilità di movimento e di gesto, di esplorazione, di costante divenire. Ciò che è fluido è instabile, impossibile da stivare, rifugge dal confinamento, dalla delimitazione.
Il nido, al contrario, definisce, delimita, costringe a fare i conti con uno spazio compatto, circoscritto, essenziale, intimo.I rametti, i fili che compongono un nido formano un intreccio spiraliforme, un piccolo vortice che punta verso il centro. Il Nido è una delle forme più funzionali di abitazione privata, un monolocale pensile, panoramico, un hangar da cui partire e tornare se si vuole, fra un’esperienza e l’altra, seguendo il flusso del tempo e degli avvenimenti.
Questi due elementi, il nido e il fluido nel titolo del lavoro di drammaturgia montana, si influenzano a vicenda, sono da considerare in stretto rapporto dialettico, due parole contrapposte che spingono reciprocamente, verso l’una o l’altra direzione.
Edizione Nidi.Fluidi per il Festival La Stazione di Topolò, 2022, Comune di Grimacco (Ud), in Friuli Venezia Giulia.
1 1 Indicare quale sia il luogo preferito nei dintorni del loro comune e inviarmi una foto del medesimo. Oppure darmi indicazioni per effettuare io stessa una ripresa.
2 Descrivere in modo fotografico il luogo preferito della loro abitazione
3 Consigliare un luogo da visitare del territorio, a chi viene da fuori
4 Pensare a un posto nel quale trasferirsi temporaneamente
5 Immaginare un luogo dove trasferirsi in modo definitivo, nel caso fossero costretti a lasciare il Comune di residenza.
6 Scrivere una parola o una frase che associano d’istinto al paese in cui abitano
7 Raccontare una storia con un protagonista non umano, significativa e legata al luogo.
Le risposte a queste domande hanno costituito il punto di partenza per creare il progetto di drammaturgia partecipata, un dialogo aperto con gli abitanti che ho contattato personalmente,
giorno dopo giorno e con i quali in alcuni casi si è instaurato un rapporto molto amichevole.
In altri la diffidenza iniziale si è sciolta a poco a poco, in altri ancora ho preferito evitare forzature e non ho insistito nella ricerca di risposte.
I dati che ho raccolto dalle schede sono confluiti in una serie di installazioni, sebbene possano essere usati anche come veri e propri indicatori del modo con cui gli abitanti si rapportano con il luogo abitato e si relazionano con il mondo.
Ho ricomposto il materiale raccolto in una serie di installazioni interattive che potessero essere fruite sia da chi avesse partecipato direttamente al progetto, sia da visitatori occasionali del festival.
La “trasformazione” del materiale in un percorso fruibile è stata effettuata in relazione allo spazio che avrebbe accolto la presentazione del progetto stesso, ovvero una vecchia baita nel centro della frazione, nota come “Ambasciata di Norvegia” (come annuncia ai passanti la targa fissata a un muro esterno).
In questo caso quindi dopo aver raccolto le schede con le risposte alle mie domande e le immagini mi sono trovata a organizzare tutti i dati in funzione dello spazio disponibile per accogliere la seconda parte del progetto, quella della “visita” del percorso.
Quando ho aperto la porta dell’Ambasciata di Norvegia mi sono trovata di fronte a un ambiente molto interessante, ma anche molto difficile da utilizzare, in quanto era “ingombrato” di svariati mobili e oggetti accatastati.
Abitualmente si tratta di uno spazio usato durante il festival per video-proiezioni e installazioni acustiche, per le quali è sufficiente avere una parete libera, o angoli dove collocare la strumentazione.
Nel mio caso ho dovuto studiare attentamente gli oggetti, i mobili e scegliere quelli che potevano essere adatti al contesto e che acquistassero un valore metaforico, simbolico tale da rafforzare il progetto.
E’ importante sottolineare che non avevo alcuna idea preordinata su come “trasformare” il materiale raccolto attraverso il piccolo questionario e i dialoghi con gli abitanti, ma ho aspettato di visitare il luogo dove potessi rielaborarlo.
La mia attenzione si è così focalizzata su alcuni elementi particolarmente interessanti: innanzittuto su un vecchio armadio dell’Ottocento, un comodino. Ho pensato fossero molto adatti ad accogliere, rispettivamente, le immagini con i luoghi favoriti, inviatemi dagli abitanti e la descrizione degli angoli favoriti della casa. L’armadio, infatti, si è trasformato in una bacheca e il comodino ha accolto le matassine con la trascrizione dei dati relativi alla dimensione domestica.
Altri oggetti hanno attirato la mia attenzione: un vecchio tavolo smembrato (nel senso che il ripiano era staccato dai sostegni) di legno massiccio, una piccola scala a pioli, una sedia da giardino in legno bruciata dal sole.
Tutti questi elementi, dopo essere rimasta a meditare più giorni nello stanzone, hanno iniziato ad acquistare nuovo senso in relazione alle caratteristiche stesse del luogo. In particolare, rispetto a una delle tre finestre presenti sul lato più lungo della parete.
Mi sono serviti per realizzare un “pensatoio geografico”, una postazione-installazione che ho intitolato “L’essenza del viaggio”. Si tratta di un angolo dedicato alle immagini e alle risposte raccolte a proposito di luoghi nei quali gli abitanti della zona desiderano visitare, o nei quali possono considerare di trasferirsi.
Un angolo riservato, più in generale, al concetto di viaggio come ricerca di un luogo che risuoni perfettamente con la propria interiorità.
Le immagini indicatemi dai partecipanti sono collocate sul muro di fronte alla sedia, circondata da una specie di barriera-pulpito (ovvero il tavolo capovolto su di un fianco) e sopraelevata su una pedana (il ripiano piuttosto spesso del tavolo), nonché ai lati di una finestra schermata integralmente da una cartina geografica delle valli del Natisone, alle quali appartiene Topolò.
Si tratta di un’installazione che può diventare “autonoma” rispetto al progetto stesso e che apre a sviluppi successivi, come del resto altri momenti di questo lavoro.
Sempre in questo locale emergono oggetti bizzarri le funzioni dei quali in alcuni casi non è del tutto chiara. Una specie di gabbia in legno, un cestello in filo di ferro arrugginito (probabilmente serviva al trasporto delle uova), una grande coppa arrugginita che scopro presto essere una campana tibetana che emette vibrazioni acustiche meravigliose.
Ciascuno di essi diventano immediatamente parte dell’installazione, arruolati sul campo. A questi si aggiunge uno strano elemento sospeso, in legno con piccoli bracci, usato per appendere probabilmente il lardo, o altro salume. Subito inserito nel novero dei protagonisti, diventerà il sostegno di quella che definisco “Albero di Topolò”, ovvero, una serie di biglietti sui quali trascrivo le parole e le frasi che gli abitanti associano al loro territorio.
La campana tibetana accoglie i “Biglietti da visita”, ovvero il nome dei luoghi che i residenti consigliano di visitare a chi viene da fuori. Emerge subito che gli adulti elaborano i loro suggerimenti tenendo in considerazione fattori estetici, i bambini anche semplicemente ed esclusivamente fattori “affettivi”, così il luogo preferito può diventare semplicemente il percorso per andare a trovare le amichette.
Fra gli oggetti rinvenuti per caso, o piuttosto, per singolare e fortunata combinazione ci sono due veri nidi. Il primo l’ho trovato appoggiato sul pavimento di legno malandato dello stanzone che ospiterà il progetto, il secondo a terra, lungo la strada che conduce da Topolò alla sottostante frazione di Clodig.
In un progetto che si intitola “Nidi. Fluidi” mi sembra molto più di una semplice coincidenza. Lo considero una specie di “segno” che mi invita a procedere e a utilizzarli immediatamente nel mio lavoro. Mi costringono a riflettere sul concetto di “Nido”, in relazione anche agli altri oggetti che ho già selezionato. In particolare rispetto alla strana gabbia di legno.
In un progetto di drammaturgia montana i dialoghi sono soprattutto rappresentati dalle interazioni verbali fra le persone coinvolte, in questo caso gli abitanti dei piccoli paesi e me. Non ci sono attori che interpretano una parte, né personaggi fittizi, perché l’attenzione è concentrata sullo spazio abitato, modellato dall’uomo, o su quello selvaggio, per contrasto.
PROGETTI